Un uomo da niente

Il pomeriggio era sereno e quell’azzurro strideva fortemente con i miei pensieri. Il sole aveva preso il posto della pesantissima coltre di nubi che per giorni interminabili aveva occupato il cielo come un demone impazzito.

Non ci credevo più. Non credevo al sole. Ero buio anch’io, ormai. Alle prese con una parte di me che faceva fatica a comprendere se stessa.

La mia vita scorreva come sempre. Come quella di tutti. Alti e bassi. Niente di che. Niente di niente.

Si chiama vuoto esistenziale. Per alcuni è depressione. Per me era il solito.
Si fa l’abitudine a tutto, anche al nulla. Non che non avessi un lavoro, una moglie, dei figli, amici, impegni, passioni. 
Li avevo e li ho.
Ma può succedere che qualcuno ti presenti un conto che avevi lasciato in sospeso.
Così ti arriva un pugno in pieno viso.
Il dolore è sordo e la ragione non basta più.
Per me il colpo fu terrificante.
In ogni parte del corpo sentivo la punta di una lancia a farmi male.
Gli uomini non piangono, me lo diceva sempre mio padre. 
C’erano volte in cui, da bambino, reprimevo la rabbia di un’ingiustizia subita e mi sentivo come un palloncino sul punto di scoppiare. Lui lo capiva e mi diceva di resistere, mi diceva che le lacrime non stanno bene sul volto di un uomo.
Papà, ti dispiace se ora piango? Se urlo?
Stavolta è peggio. Stavolta l’ingiustizia me la sono inflitta da solo.
Non ci sono capri espiatori. 
Sono colpevole. Lo sapevo, e nel mio cuore lo sentivo perfettamente.
Lo sentivo quando ascoltavo quella musica maledetta che apriva ferite mai guarite.
E ogni volta che pensavo a quella stanza giovane in cui avevo vissuto con lei, indolente nel suo amore puro e sfacciato, maledetto anche lui.
Quel viso, le sue labbra piegate in giù in un broncio definitivo, gli occhi grandi che bastavano solo loro a pronunciare parole impronunciabili. L’amore non si dice.
Quel suo profumo, la pelle che sapeva  di mamma e di peccato.
Quel suo cuore, che ho potuto ritrovare solo in un’alba lontana, o all’interno di una conchiglia, o in  mille granelli di sabbia, o nella mia idea di Dio.
Quel suo incedere unico, che ti entra nelle cellule del cervello e te la fa desiderare dolorosamente. Eppure avevo combattuto.
Avevo lasciato che i pensieri fuggissero, avvolti dal fumo di mille sigarette volate in altre vite.
L’avevo lasciata andare nel suo guscio di pizzi e pece.
La mia scelta non poteva essere lei.
Non so perché. La sentivo limitante. Forse pensavo che fosse troppo per me. Probabilmente ne avevo paura.
Fine della storia. Addio.

Se n’era andata e aveva portato via con sé ogni sensazione, ogni sentimento.
Non i ricordi.
Quelli no. Erano miei e per loro avevo trovato un angolino comodo e celato.
Li proteggevo e di tanto in tanto passavo a toglierne la polvere.
Non hanno mai fatto male. Mai provocato dolore. Mai nostalgia.
Io sono uno che vive del presente e guardo lucido al domani.

Poi il futuro divenne oggi e la riportò da me.
Bastò un incontro per caso e il tappo dorato saltò per aria, regalandomi il riflesso di un’immagine di me che non conoscevo. Che mi fece paura.
E il solletico tornò a torturare prima i miei sensi, poi la mia anima.
Un desiderio folle, un sentimento che non poteva avere nome.
Una riflessione inutile che poteva portare alla catastrofe comune.
Niente domande.
Chi se ne frega se ha una vita senza di me, al di fuori di me, oltre me.
Chi se ne frega se ho una vita senza di lei, al di fuori di lei, oltre lei.
Tutti gli istanti vissuti insieme in un’altra esistenza entrarono prepotentemente  nei gesti quotidiani.
Io mi nascosi. Io tentai di nascondermi.
Ma come nascondiglio scelsi il suo cuore, il luogo più adatto a custodire un amore.
O forse no. Il meno adatto.
Perché lei quel mio amore lo cullava come un bimbo. Lo nutriva. Lo sublimava.
Con le sue risate, l’ironia e la nostra naturale complicità.

Tornarono sere immense, d’amore e respiri e bugie.
Tornarono con l’incoscienza urticante di chi sa che si sta prendendo tutto dalla vita.
Con la leggerezza dell’egoismo.
Tornarono come una droga che mentre dà la felicità corrode gli spazi del corpo e produce segni indelebili nell’anima.
Si consumò ogni brandello di tempo con un’ansia famelica e alla fine quella cascata folle saziò la fame, si acquietò, prese un nuovo, futuro appuntamento e tornò a posarsi in un angolino del cuore.
Fu un connubio di scelte e fatalità imprescindibili le une dall’altra.
Portò un cielo di nubi immense che forse non si sarebbero diradate mai.
E una lotta furiosa, una bilancia ideale sulla quale cominciai a razionalizzare i battiti del cuore, a pesarli e a trarre conclusioni da uomo comune. Quello che per lei non ero mai stato.
Un uomo falso. Solo. Inutile. Vigliacco.
Un uomo da niente. Che non meritava una stella.

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