Il senso della vita

LisaLisa aspettava un tramonto rosso fuoco  che mancava dal cielo da immensi e interminabili mesi. Pensava e pregava il buon Dio che le portasse un po’ di sole: ne aveva bisogno la sua anima devastata da quella che sembrava tutta una vita di stenti. I profondi e meravigliosi occhi blu non le erano bastati per avere un destino felice. Aveva seguito la sua indole docile e aveva dispensato scodinzolii e amore a tutti, avendone in cambio solo maltrattamenti. È il destino dei buoni. Sono troppo buona? Certamente era invalida, e su questo non v’era alcun dubbio.

Aveva un arto rotto, per usare un eufemismo, ricordo non tanto lontano di una pallottola partita da un fucile da caccia, quello del suo miglior amico.

L’aria quel giorno era freschissima, il cielo lindo e celeste; che belle quelle giornate di tramontana! Peccato che fossero sempre di meno, e non solo da un punto di vista metereologico, ma soprattutto perché lui non la cercava più, non la portava con sé durante le sue passeggiate.

Diceva che aveva perso i riflessi di una volta, diceva che era necessario sostituirla, che ormai era diventata un peso morto. La lasciava nel terreno legata alla solita vecchia corta catena e se si ricordava, ogni tanto, le portava da mangiare gli avanzi del suo pasto e pane secco.

Così un giorno, peso morto per peso morto, le sparò davvero, ma sbagliò la mira. Il colpo non la uccise, la ferì ad una zampa, così in un impeto di compassione la prese e la portò nelle campagne di un paese vicino. Non ebbe il coraggio di completare l’opera, anzi fu fiero di sé, convinto che abbandonandola e risparmiandole la vita, forse si sarebbe salvata in qualche modo. Ce n’erano così tanti cani randagi in giro. Uno più uno meno, non cambiava nulla.

Per Lisa ci furono solo il dolore sordo, le grida disperate, il silenzio, lo sgomento, la solitudine.

Nessun crepuscolo rosso. Di rosso ci fu solo il sangue. E tanta strada sconosciuta. Ferita. Scacciata. Affamata. Sola.

Iniziava a piovere.

Lisa cominciò a camminare sulle sue tre zampe magre come chiodi ma sane, portandosi dietro quella ferita che ormai non sentiva più, come un fardello inutile, ma che non si può abbandonare. Era l’ombra di un cane, ero uno scheletro, era un fantasma.

E camminava, Lisa, sotto la pioggia, le gocce solcavano il suo manto spelacchiato e arrivavano sulla pelle come piccoli proiettili gelati che raggiungevano le sue ossa doloranti.

Quello fu l’attimo in cui poteva incontrare qualcosa che potesse somigliare a una favola.

Una signora, vedendola, si fermò e la chiamò “amore”.

Bastò a Lisa per fermarsi, avvicinarsi alla vettura, arrampicandosi dal finestrino aperto, e assaporare l’odore di quella famiglia che non c’era ma si intuiva, il tepore di una casa mai vista ma nota fin nella polvere ferma sui mobili di quercia, solidi come la protezione che le avrebbero dato per sempre, fino all’ultimo istante della sua vita. Poteva succedere il miracolo, poteva iniziare la favola. Poteva. Ma quella strana signora frutto dell’impasto tra cuore e ignoranza, non sapeva che poteva chiedere aiuto ai carabinieri, ai vigili, al canile. No, la mente le si atrofizzò. E Lisa ignorava che la signora non possedesse una vera casa, pur vivendo sotto un tetto e tra quattro mura.

Così Lisa ebbe due carezze, due biscotti e una promessa. “Cerco un veterinario, chiamo i miei amici, aspettami, ti toglierò di qui”. Intanto, malvolentieri, Lisa dovette scendere dal cofano comodo di quell’auto vecchia che a lei era sembrato accogliente come l’animo di un amico sincero, e continuò il suo patetico vagare alla ricerca del senso della sua strana esistenza, seguita dalla signora che fece esattamente la stessa cosa. Il senso della vita. Chiedere aiuto. Fare del bene senza aspettarsi ricompensa.

Si precipitò dall’unico veterinario del paese e non lo trovò. Telefonò a tutti quelli che le vennero in mente, ricevette solo no. Preparò delle polpettine di pane, prese una vaschetta e una bottiglia d’acqua, una coperta e tornò sul luogo dell’incontro. Lisa non c’era, ma la signora non si scoraggiò. Girò per strade e vicoli e alla fine la trovò, foto indimenticabile, accovacciata su un cartone inzuppato di pioggia, mentre cercava di difendersi dal freddo crudo di gennaio, sotto i bidoni grigi e serrati della spazzatura. Povera creatura. La sua solitudine ancestrale, la sua tristezza sobria, la sua rassegnazione ormai accertata ebbero un nuovo scossone. Di nuovo a un passo dalla favola. Come è facile riconoscere l’amore! Di nuovo quella signora dal sorriso triste e stavolta con tante buone polpettine. E acqua e una coperta. E tante carezze dolci. Lisa ignorò il cibo anche se lo stomaco la supplicava di mangiare. Lisa sapeva che c’era una preghiera che doveva venire prima di tutto. Si voltò verso quella sua unica amica e sussurrò:

Portami con te.

Non chiedermelo, non posso.

Tienimi con te, ti prego.

Non pregarmi, non posso, tesoro …

Solo per stanotte, ho così tanto freddo …

Non posso, amore. Tornerò domani e ti troverò la più bella delle case. Devi essere forte solo per quest’ultima notte.

Non dirmi di no, tu non sei come gli altri. Portami con te, non sento più le zampe, non vedi che sto male? Non lasciarmi, te ne prego …

Non posso non posso non posso.

Ti prego …

Non posso …

Più Lisa abbassava la voce fino a renderla un flebile sussurro, più la signora urlava. Contro Lisa, contro sé stessa, contro il veterinario che non c’era, contro chi non le aveva dato una mano, contro la vita, contro il Cielo.

E se ne andò mentre un passante infreddolito scosse la testa pensando che la gente è matta. Fuggì velocemente e vide la creatura che la inseguiva con le sue tre zampette ossute, incurante delle auto, degli incroci, della pioggia, maschera stravolta di una tragedia inutile e insensata. La vedeva dallo specchietto e tra le lacrime, mentre cercava di accelerare e mentre il cuore urlava impazzito. La notte della signora fu infinita e malvagia, l’alba a lungo attesa.

Nessuno saprà mai come sia stato il tempo di Lisa, e l’alba e ogni istante di quella lunga notte. Né il suo destino. Lisa non c’era. Nel suo giaciglio improvvisato c’erano la coperta, la ciotola con l’acqua e resti di cibo, consumati chissà da chi. Nessuno l’aveva vista in quella lunga fredda e buia notte. Nessuno la vide nei giorni successivi. Nessuno la vide più. Volata via, svanita, incenerita, evaporata. Né viva né morta.

Ma Lisa era riuscita a riannodare il filo invisibile di una vita che cercava il suo senso.

E regalò una favola. Con una fine da immaginare felice. Per non morire di dolore.

Lisa sarà mia per sempre. A lei chiedo perdono ogni giorno, da quindici anni.

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