Sempre più distanti, mai più soli

Il 2020 resterà a lungo impresso nella nostra memoria come l’anno della pandemia da Covid-19, il virus che ad oggi ha mietuto oltre 1.250.000 vittime nel mondo e oltre 41.000 solo in Italia.
Un anno segnato da notevoli sacrifici, da ingenti perdite economiche e da un persistente senso di sfiducia nel prossimo futuro.
La comunità scientifica procede nella ricerca e sperimentazione di un vaccino, le istituzioni approntano piani di sostegno economico e strumenti di tutela del lavoro, ma in pochi si interrogano sulle ricadute socio-culturali di questo fenomeno epocale.
In particolare, si ha il fondato timore che il lockdown del marzo – aprile scorso, a cui fa seguito l’attuale periodo di restrizioni differenziate da regione a regione, abbia determinato, da un lato, un progressivo inaridimento culturale della popolazione, dall’altro, il crescente isolamento del singolo, sempre meno capace di empatizzare con il suo simile.

Quali sono i fattori di rischio che stanno provocando questa pericolosa deriva?
Uno su tutti: il divieto di creare assembramenti.
L’assembramento è una parola-chiave, della quale forse fino all’anno scorso molti tra noi ignoravano l’esistenza, divenuta purtroppo uno tra i principali nemici da combattere in quanto potenziale vettore del virus.
A pieno titolo, gli esperti sostengono che dalla riunione di un generico numero di persone (domanda ancora priva di risposta: qual è il numero minimo di persone tale da determinare un assembramento?) possa scaturire una più rapida circolazione e diffusione del virus attraverso la stretta di mano, il respiro, la tosse, lo starnuto.
Non vogliamo e non possiamo in alcun modo smentire tale assunto, ma allo stesso tempo riteniamo che l’impossibilità di incontrarsi, riunirsi, entrare in contatto fisico, parlarsi – se non dietro il velo di una mascherina – stia modificando, in peggio, il nostro modo di confrontarci con noi stessi e di interagire con gli altri.

L’uomo, per natura, ha bisogno di contatto con altri uomini; non a caso, la sua natura di “animale sociale” si sviluppa pienamente solo nella dimensione plurale del “noi”.
Al contrario, l’avvento degli smartphone e dei social network, ultimi prodotti del tanto celebrato progresso tecnologico, hanno già provocato nell’ultimo decennio un pericoloso trasferimento dell’individuo dalla piazza reale alla piazza virtuale, a cui si accompagna sempre più spesso un utilizzo sterile, improduttivo o ancor peggio illecito degli strumenti tecnologici.
La pandemia da Covid-19 sta facendo il resto: siamo sempre meno “presenti fisicamente” e sempre più “attivi da remoto”, in un quadro condizionato da restrizioni imposte per tutelare la salute pubblica, ma caratterizzato anche da una libera e consapevole scelta (“potrei uscire ma preferisco restare in casa”).
A farne le spese sono la nostra intelligenza emotiva e sociale, la nostra capacità connetterci con la parte più profonda del nostro io, di comprendere e gestire le nostre emozioni, di partecipare emotivamente agli stati d’animo altrui.
Come possiamo arginare l’insorgenza di questo “male sociale”? Dobbiamo riappropriarci di alcune forme, ad oggi ancora consentite, dello “stare insieme”: fare una telefonata o ancor meglio una videochiamata ad un amico, anziché inviare un banale messaggio in chat; scrivere una lettera e inviarla per posta a un parente lontano che non vediamo da tempo; far recapitare un regalo inaspettato a una persona cara.
Dobbiamo ricordarci che siamo fatti “di carne e di ossa” e che una mascherina o il display di un cellulare possono preservarci da un virus, ma non devono privarci del contagio più salutare, quello delle emozioni e delle idee.

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