“Scemo chi guarda”: l’inesorabile declino della TV generalista

Sembra passata un’era geologica dai tempi in cui i canali televisivi si contavano sulla punta delle dita.
Nella cronistoria della TV italiana, l’emanazione della legge Mammì ha senza dubbio rappresentato un punto di svolta sostanziale, in quanto a partire dal 1990 è stata consentita anche alle emittenti private – non più solo alla RAI in condizioni di monopolio – la diffusione su scala nazionale di servizi televisivi e radiofonici, in un’ottica di pluralismo dell’offerta culturale.
Già dai primi anni ‘90, il ventaglio delle opzioni a disposizione dello spettatore è divenuto sempre più ampio e variegato, grazie a format vincenti quali il varietà, il quiz, la fiction, il talk show, l’imprescindibile TG e i suoi relativi approfondimenti.
Per almeno 15 anni, dunque, le TV generaliste (RAI e Mediaset) sono state perfettamente in grado di soddisfare le esigenze informative, culturali e di intrattenimento degli italiani, ma soprattutto di assecondare i gusti e di orientare le scelte di consumo degli spettatori, non da ultimo in quanto le due emittenti erano di fatto gli unici contenitori a disposizione dei partners commerciali.
L’avvento di internet e in particolar modo l’ascesa di YouTube, ad oggi “la TV più vista al mondo”, hanno ridefinito lo scenario: negli ultimi anni si assiste ad una vera e propria migrazione dei telespettatori verso il web, universo etereo che ha interamente fagocitato l’audiovisivo contemporaneo, rendendo possibile la fruizione di contributi storici d’archivio, di contenuti registrati in tempo reale, di prodotti e format del futuro. Parallelamente – difficile dire se a causa o in conseguenza di tale primo fenomeno – assistiamo alla proliferazione di piattaforme e canali tematici, sia in TV che sul web, dedicati ai più svariati ambiti di interesse (cinema, sport, cucina, arte, scienza, natura).
Ciò che spaventa maggiormente è l’attuale stato di salute delle “anziane” TV generaliste: incapaci di fronteggiare il confronto con i “giovani” rivali (YouTube, Sky, Netflix, Amazon Prime Video) si sono appiattite su palinsesti banali e poco accattivanti, se non addirittura “trash” e sconvenienti.
“Mamma RAI” sembra non rendersi conto che i tempi sono cambiati e continua a proporre quiz d’annata, fiction stucchevoli, varietà ingessati.
Forse Mediaset riesce a fare anche di peggio.
Solo per citare alcuni esempi, format quali “Tu sì que vales”, “Uomini e Donne”, “Grande Fratello” (nelle varie declinazioni), “Temptation Island”, sono il trionfo della mediocrità, l’esaltazione del grottesco, la dimostrazione lampante che forse in Italia il buon gusto non è più di moda.
Non è peregrino chiedersi, anche solo a titolo meramente provocatorio, se abbia ancora senso possedere un televisore (e conseguentemente, pagare il canone).
Ancora una volta, il compromesso accettabile si colloca a metà strada: sarebbe opportuno, da un lato, che gli storici network del tubo catodico aggiornassero i propri palinsesti accogliendo con favore gli stimoli positivi che provengono dalla rete (ad esempio, dando risalto sul piccolo schermo ad alcuni canali YouTube, web series, autoproduzioni online); dall’altro, che le stesse reti ammiraglie diversifichino sempre meglio la propria offerta audiovisiva su internet, in modo da intercettare direttamente sul web ampie fasce di utenza (soprattutto quelle più giovani) che ormai sono del tutto indifferenti alla programmazione televisiva terrestre.

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