Dirigere fino alla fine

La recente notizia della morte sul podio del direttore d’orchestra Stefan Soltész offre l’occasione non solo per ricordare altri direttori accomunati dallo stesso destino ma anche per riflettere ed interrogarsi su cosa può capitare nel momento fatidico che avvicina l’uomo alla metamorfosi finale.

Soltész è morto venerdì 22 luglio, a 73 anni, mentre dirigeva Die schweigsame Frau (La donna silenziosa) di Richard Strauss al Nationaltheater di Monaco di Baviera.  

Prima del maestro austriaco sorte simile è toccata ad altri direttori: Dimitris Mitropoulos, Hermann Scherchen, Franco Capuana, Giuseppe Patanè e Giuseppe Sinopoli.

A coloro che hanno assistito a tali eventi, ovvero di bacchette “spezzate” ex abrupto, rimane la percezione del sic transit gloria mundi lasciando, così, il pubblico attonito.

Soltész era nato a Nyíregyháza (Ungheria) il 6 gennaio 1949, austriaco di adozione; si trasferisce presto a Vienna intraprendendo lo studio del pianoforte e della composizione, entrando nella prestigiosa scuola di direzione d’orchestra di Hans Swarowsky, il maestro dei grandi come Claudio Abbado, Daniel Barenboin, Zubin Mehta e Giuseppe Sinopoli. Fino dagli esordi (1971) è alla testa di importanti orchestre collaborando con teatri di tutto il mondo. In Italia ha diretto al Teatro Bellini di Catania e all’Opera di Roma.

Con la morte di un direttore d’orchestra, nell’immaginario collettivo cessa di esistere il dominus del mondo, almeno finché si trova sul podio, mentre per l’ascoltatore si spegne il suo abbandonarsi nella musica e quell’idealizzazione di figura onnipotente che dal podio (sorta di pulpitum) riesce a soggiogare tutti, in primis l’intera orchestra, incarnazione del potere dittatoriale in musica come acutamente aveva scritto Elias Canetti nel suo Massa e potere (1960).

Questa figura può diventare un mito, come recita il titolo di un volume di Norman Lebrecht, The Maestro Myth: Great Conductors in Pursuit of Power (1991), spesso dimenticando che sul podio vi è una persona con le stesse fragilità e problemi che accomunano gli altri. Sbalzi pressori, forte stress, tensioni, stanchezza mentale dovuta alla grande concentrazione e, talvolta, momenti di estasi; insomma, la direzione d’orchestra è un’esperienza totalizzante che richiede esclusività nonostante sia anche una professione logorante. Un mio ex collega ha deciso di abbandonare l’attività: «Che stress la vita da direttore d’orchestra, ora abito sul mare con il mio violoncello».

Ritornando alle ‘fragilità’ che si possono manifestare nell’arte non bisogna stupirsi di quanti direttori siano assaliti da paure e angosce a causa della grande responsabilità attribuita loro come ‘traghettatori’ ai professori d’orchestra della loro visione interpretativa.

Per alcuni aspetti il direttore è simile a Diogene che, con la sua lanterna, è alla ricerca dell’anima del compositore che vive attraverso la sua opera e, al tempo stesso, ricorda Eraclito, colui che indaga sulla verità (aletheia) celata nella partitura e non si svela a tutti, se non a studiosi seri di talento. Quanto egli riesce a cogliere dalla partitura viene vissuto attraverso il corpo, la mente e lo spirito, con l’empatia necessaria insieme agli altri musicisti.

Basta un attimo per comunicare con il gesto (l’impulso, il respiro) a tutta l’orchestra (solisti, coro, ecc.) una serie di informazioni (tempo, dinamiche, agogica, colore, ecc.) ma se si sbaglia l’esecuzione ne risulta compromessa. Ciò che invece non bisogna far trapelare è il dubbio socratico delle certezze non affidandosi soltanto alle braccia, cosa che avviene spesso a chi si improvvisa in questa difficile professione ignorando che, come affermava Toscanini, «le braccia sono l’estensione della mente».

Riferirci alla dedizione e all’amore del direttore d’orchestra per restituire vita all’opera musicale, in altri termini, significa anche avvicinare l’amore alla morte tanto da, parafrasando Leopardi, essere accomunati dallo stesso destino come fratelli.

Allora, affidandosi a Mnemosine (personificazione mitologica della memoria) come sorgente di immortalità, in ricordo di questi grandi direttori, oltre che esprimere requiescant in pace, mi piace concepirli nella Tod und Verklärung (Morte e Trasfigurazione) del poema sinfonico straussiano prima che la Parca Atropo tagli il filo vitale, magari sul podio, come auspica Zubin Mehta al termine di un’intervista: «A noi direttori piace morire sul podio». 

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