Pigrizia imprenditoriale: il leccese tra luci e ombre

PigriziaNon è ampiamente noto, ma non pochi sono coloro al corrente che la provincia di Lecce soffre di pigrizia imprenditoriale. Mentre a livello nazionale la percentuale di imprenditori giunge a 10 punti, nel leccese tale valore non supera il 7%. Mancano all’appello più di 30.000 imprenditori. Un dato importante, anche se approssimativo, se si tiene in conto l’alto tasso di disoccupazione. Quest’ultima potrebbe, infatti, essere più contenuta se la provincia di Lecce avesse un’imprenditoria in linea con i valori italiani nel loro complesso.

Una questione, quella della pigrizia imprenditoriale, che dovrebbe far riflettere politici ed intellettuali locali, ma anche di cabotaggio più ampio. In genere, si attribuisce la causa dello scarso dinamismo e di capacità di iniziativa a fattori etno-sociologici, ma così non è. A ciò basti pensare che storicamente la provincia di Lecce ha avuto un’imprenditoria molto attiva e numerosa. Negli anni intorno all’Unità, infatti, il nostro territorio aveva un tasso di industrializzazione pari a quello di Milano e superiore a quello di Torino (a ciò si consultino le statistiche dell’Istituto Tagliacarne). Senza poi dimenticare che aveva un tasso di internazionalizzazione superiore alle medie nazionali. Ma c’è di più. Sino al 1900, il contributo alla Bilancia dei Pagamenti italiana da parte delle esportazioni leccesi è stato determinante per il nascente Stato. Da allora, lentamente, si è registrato un progressivo peggioramento. E ciò in virtù di una legislazione del tutto sfavorevole al Basso Salento. E non si nasconde qui che si vuole affermare che una delle cause principali del divario economico tra Nord e Sud sta proprio nell’attività dello Stato. Decine sono le leggi ed enorme è la mole di documenti che mettono in luce tale peculiarità storica. E forse sono maturi i tempi per una rivisitazione della storia italiana, ma gli storiografi di Stato sono di una prudenza che eccede lo zelo e la prudenza stessa.

Certamente, la scarsa attività imprenditoriale non è emersa d’un colpo, con l’Unità. L’imprenditoria leccese ha mantenuto salde le proprie posizioni per circa 90 anni e cioè sino al secondo dopoguerra. Qui negli anni a cavallo tra il 1950 e il 1963 ha registrato un salto di discontinuità. In particolare, dopo la normativa europea a svantaggio delle produzioni agricole leccesi, molti dei vecchi imprenditori autoctoni hanno dovuto chiudere i battenti e gli imprenditori di origine extraprovinciale hanno abbandonato il nostro territorio. Un frangente storico difficilissimo, che comunque a partire dal 1964 mostra chiari i segni di una ripresa, ma non più ad opera della tradizionale classe imprenditoriale leccese. Emerge lentamente il TAC (Tessile, Abbigliamento e Calzature) ad opera di nuovi imprenditori, che nulla hanno a che vedere con quelli che da secoli presidiavano il territorio. La nuova imprenditoria però si connota da caporali di industria e non da veri e propri imprenditori, mentre lo Stato non fa niente per far crescere la qualità del loro operato, anzi al contrario dispone una serie di leggi che li relegano esclusivamente alle fasi produttive e alle dipendenze dell’imprenditoria del Nord.

Ma non finisce qui. Un altro salto di discontinuità nella crescita dell’imprenditoria leccese si registra nel 2002, con l’ingresso dell’Euro. La politica della BCE di mantenere i cambi a livello alto e stabile distrugge il TAC, che nel breve volgere di qualche anno perde completamente la sua consistenza.

Fortunatamente, in provincia di Lecce nello stesso tempo decolla il turismo. Ma sono pochi gli imprenditori che dal TAC rifluiscono in questo settore. Ecco, quindi, un altro salto di discontinuità nella crescita dell’imprenditoria leccese che è stata percossa dall’attività dello Stato, il quale ne ha impedito uno sviluppo stabile e duraturo in termini di crescita numerica e qualitativa. E se oggi esiste un folto gruppo di imprenditori, anche se non nelle medie nazionali in relazione alla popolazione, lo dobbiamo alla vivacità e alla capacità dell’imprenditoria locale di sfruttare tutte le opportunità di mercato e di reagire all’azione sfavorevole dello Stato.Oggi, nella provincia di Lecce, mancano migliaia di imprenditori e vi sono circa 70.000 disoccupati. Quali questi come i migliori dati su cui impostare una nuova politica. Tuttavia, gli addetti ai lavori tacciono, non dicono, pensano all’efficientamento delle spese dello Stato, quando potrebbe essere utilizzato un potenziale umano di grande qualità, foriero di ricchezza per tutti. Che forse, nella politica nazionale i leccesi debbano solo stare fermi a guardare? Ed i leccesi, poi, hanno perso completamente coscienza del loro valore?

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