Il dramma nell’edizione scaligera della Salome di Strauss

Didascalia dell’immagine: Gustave Moreau, L’Apparition, 1876

Si è dovuto attendere ben undici mesi (dall’8 marzo del 2020) per vedere sabato 20 febbraio, dal Teatro alla Scala, la Salome di Richard Strauss. Abbiamo seguito il Dramma musicale in un atto (registrato il 18 e 19 febbraio) grazie a Rai 5 con inizio alle 20:00 e la sapiente direzione di Riccardo Chally, sostituto dell’ultim’ora di Zubin Mehta, impossibilitato per motivi di salute, insieme alla regia di Damiano Michieletto.

In sostanza il ritardo, giustificatissimo per il lockdown, ha creato, come accade nel linguaggio armonico, tensioni ed aspettative.

Si è trattato quasi di una sorta di passaggio di testimone tra i due direttori, quando un ventenne Chailly (1974) si è trovato al debutto scaligero di Mehta nella direzione dell’opera straussiana.

La prima assoluta risale al 9 dicembre del 1905 al Konigliches Opernhaus di Dresda, mentre quella italiana ha luogo a Torino, al Teatro Regio, il 22 dicembre 1922, diretta dallo stesso Strauss con il grande soprano e raffinata interprete Gemma Bellincioni.

Parliamo di un’opera complessa sia sul piano drammaturgico che per la partitura come si evince anche dalle parole del regista: «Ho voluto rappresentare la dinastia di Erode come l’emblema di una crudele tragedia familiare» e dal maestro Chailly che, contestualizzando storicamente il lavoro, accanto a Debussy con il suo Pelléas et Mélisande (1902) cita Puccini con Tosca (1900).

La vicenda, risalente alla narrazione evangelica ma amplificata teatralmente nella Salomè di Oscar Wilde, trova nella realizzazione musicale di Strauss (suo il libretto attingendo dalla traduzione tedesca di Hedwig Lachmann del testo di Wilde scritto in francese) una nuova lettura del dramma, superando certe illusioni borghesi per indagare più psicologicamente i grandi temi dell’eros e quel «mistero dell’amore [che] supera il mistero della morte».

Il racconto blasfemo di Wilde è incentrato sulle perversioni (lussuria, ecc.) del genere umano tanto che Salomè decide di far uccidere il profeta Giovanni Battista per non aver ceduto alle sue seduzioni. Siamo nell’ultima scena ed Erode (Antipa) supplica la giovane donna di danzare per lui promettendo di esaudire qualsiasi suo desiderio. Il tetrarca, pur contrario, è costretto a ottemperare alla richiesta che consiste nell’aver la testa di Jochanaan su un piatto d’argento.

La profondità testuale dell’opera non nasconde lontani echi risalenti al Cantico dei Cantici come, per esempio quando Salome parlando davanti alla testa di Jochanaan, nel rimproverarlo di essere stata costretta a tale follia, afferma: «Ho sete della tua bellezza, ho fame del tuo corpo; e né vino né frutta possono quietare il mio desiderio» rievocando il conflitto tra Eros e Thanatos che, ancora una volta, la musica riesce a sublimare attraverso la bellezza.

Salome, espressione del primo teatro tedesco di matrice espressionista, costituisce un’opera originalissima che per alcuni aspetti rappresenta una sintesi tra il linguaggio wagneriano e l’estetismo simbolistico, dall’altro ancora una volta riemerge una certa dialettica ove sul piano del pensiero sembrano prevalere più le idee nietzschiane rispetto a quelle di Schopenhauer.

Dall’ascolto non possiamo non sottolineare la presenza di temi che strizzano l’occhio all’esotismo allontanandosi al contempo dall’uso wagneriano del leitmotiv. La struttura non risparmia nessun elemento della scrittura come l’uso degli intervalli, il modo di trattare l’armonia, l’agogica e quant’altro come si può intuire anche dalla testimonianza del compositore: «Già da tempo disapprovavo che nelle opere di soggetto orientale ed ebraico mancassero il colore autenticamente orientale e il sole ardente. Questa esigenza m’ispirò un’armonia veramente esotica, variegata da insolite cadenze come seta cangiante. Il desiderio di caratterizzare al massimo i personaggi mi portò alla bitonalità».

Ogni particolare della scrittura è al servizio dell’opera come, per esempio, un cromatismo crescente che va di pari passo con lo sconforto di Salome o il climax drammaturgico che coincide con la scena in cui la giovane, presa dalla sua follia, urla: «Voglio baciare la tua bocca, Jochanaan!» che, nella versione scaligera, è realizzata attingendo al sangue che cola dall’alto, dalla testa del profeta, in un bacile. Per alcuni aspetti sembra di rivivere quell’esplosione di rosso sanguinante percepito, anche come urlo, da Munch prima di accingersi a realizzare l’omonima tela.

A dare più risalto al colore di questo dramma, Strauss ricorre ad una tavolozza strumentale straordinaria utilizzando un organico completo dei legni (compresi altri strumenti dal più acuto al più grave,  dall’ottavino al controfagotto, passando dal corno inglese, vari tipi di clarinetti), 6 corni ai quali vanno aggiunte 4 trombe e altrettanti tromboni, basso tuba unitamente ad una presenza significativa di percussioni a suono determinato e indeterminato (4 timpani, xilofono, gran cassa, tam- tam, ecc.), 2 arpe, celesta, organo, ecc., oltre ad un numero considerevole della famiglia degli archi.

Tornando a questa edizione, segnaliamo un cast di tutto rispetto con la presenza della bravissima Elena Stikhina (Salome), Wolfgang Koch (Jochanaan), Gerhard Siegel (Herodes) e Linda Watson (Herodias) oltre ad una regia che si muove intorno ad un progetto che, in alcuni momenti, sembra andare ben oltre il libretto.

Dal punto di vista dello spettacolo, accanto alle apprezzate doti vocali e cura del fraseggio degli interpreti, la presenza sulla scena di piume nere, la luna (sfera nera), la cisterna (prigione) con la terra sopra, ma anche gli angeli della morte, un agnello sgozzato e il sangue sono tutti elementi che si contrappuntano tra partitura e regia.

Un’ultima riflessione. Pur considerando che lo spirito dei grandi, nel suo essere inafferrabile, può comunque infiammare le menti, nondimeno il racconto delle emozioni non può non sottrarsi dal far avvicinare indistintamente tutti, adeguatamente, alla percezione della bellezza di opere senza tempo.

Ritornando sugli effetti dei ritardi in musica, metafora per quest’opera, nell’offerta televisiva, più che immaginarla come una mancata o adeguata “preparazione” al coinvolgimento di un pubblico eterogeneo, mi piace concepirla come un’altra sfida della Rai nel proporre grandi capolavori.

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