Ricordando Peppino Impastato, voce di uno che gridava nel deserto

Nasce a Cinisi il 5 gennaio del 1948 in una famiglia collusa con la mafia locale. Nasce che suo padre aveva già combattuto al confino durante il periodo fascista, e con uno zio che era capomafia del paese. Senza colpa si era trovato sotto una nube nera che avrebbe potuto segnarlo per sempre e consegnarlo alla stessa manovalanza. Eppure…

Eppure riuscì a distinguere il giusto dall’ingiusto, il bello dal brutto, la vita dalla morte.

Peppino frequenta il liceo classico di Partinico, ripercorre le ingiustizie della storia, studia, si documenta, si appassiona. Cresce e fonda “L’idea socialista”, un giornale che verrà sospeso per un anno e la cui riapertura segnerà la prima frattura fra lui e la famiglia.

“Mafia, una montagna di merda”: è questo l’articolo in cui Giuseppe si firma e in cui senso di innovazione e di odio profondo verso l’amalgama mafioso di Cinisi vengono gridati a voce alta. Peppino, a soli diciassette anni, parla di emigrazione, di lavoro, di repressione sessuale, di ambiente. Ma “L’idea” viene fatto chiudere. Peppino però non si ferma e fonda Radio Aut e dai microfoni di quella emittente continua la sua lotta in favore della legalità, combattendo aspramente contro la cultura mafiosa che si annidava non solo nelle maglie dell’associazione, ma in ogni strato sociale che accettava e barattava la propria libertà in cambio di qualche favore.
Nel 1978 si candida alle elezioni comunali con la lista “Democrazia Proletaria”, ma Peppino non conoscerà mai l’esito di quelle votazioni. Non saprà mai che gli abitanti di Cinisi voteranno comunque il suo nome, e che la sua persona diventerà simbolo del Consiglio Comunale.

La notte dell’8 maggio, Peppino non decide di suicidarsi, no. È vittima di un atto terroristico che verrà infangato e passerà quasi inosservato perché è proprio in quelle stesse ore che verrà ritrovato il corpo senza vita di Aldo Moro. Il leader della Democrazia Cristiana viene rapito il 16 marzo di quell’anno, da un gruppo di quattro brigatisti che, travestiti da assistenti di volo, sparano sulla scorta; e dopo una prigionia di 55 giorni, uccidono anche l’ostaggio. Il corpo del Presidente sarà rinvenuto in una zona centrale di Roma all’interno del bagagliaio di una Renault 4 rossa. Sono gli anni di piombo, anni di terrore e paura in cui a catena si verificano uccisioni e attentati che l’Italia non può perdonare. Gli anni di un virus ancora più difficile da dimenticare: quello del terrorismo.

“Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà.” Sono le parole sincere di figlio che non poté nascere in una Sicilia diversa e che era convinto che si potesse educare la gente alla bellezza perché restassero vivi la curiosità e lo stupore.
Oggi restano pochi Peppino Impastato. Nessuno si illuda. Perché alla base c’è ancora una massa di codardi pronti a chiudere gli occhi su tutto, a barattarsi per due briciole, a coltivare un orticello di ortiche nel cuore, a spargere odio e prepotenza quando ci si sente leggermente forti, ovviamente sui deboli, e si accettano compromessi e si praticano voti di scambio. La mamma di Peppino, Felicia Impastato, li definiva “Mafiosi, fascisti, uomini di panza che non valgono neppure un soldo. Padri senza figli, lupi senza pietà”.

Più tardi il fratello di Peppino, Giovanni Impastato, ci ricorderà una cosa fondamentale: che i mafiosi hanno commesso l’errore grave di amplificare la sua voce, invece di metterlo a tacere. Giovanni Impastato ci ricorderà che non dovremo mai avere paura di percorrere i cento passi che ci separano dal nostro Don Tano perché la mafia uccide e il silenzio pure.
Grazie, Peppino, maestro di sogni, di progetti, di idee, di bellezza.

Che il tuo sacrificio non sia stato vano.

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