Lecce, dal sogno alla crisi

Per molti decenni Lecce s’è rifugiata nel posto statale. Ambìti, poi, a partire dagli anni ’90, sono stati gli impieghi negli istituti bancari e presso l’Università. Insomma, Lecce, negli ultimi sessant’anni si è prodotta in una frenetica corsa al posto fisso, alla fissità appunto. La coppia perfetta leccese è lui alto funzionario dello Stato e lei professoressa di lettere alle superiori.

Da qui, la naturale tensione di Lecce verso tutto ciò che non si muove, verso tutto ciò che è conservazione. Il valore per eccellenza leccese è la sicurezza, la sistemazione, l’ordine. Nessuno spazio ai sogni, nessuno spazio alle avventure, se non in un contesto protetto e prevedibile. Non a caso i leccesi, anche nel tempo libero, scelgono vacanze programmate, crociere: tutto in estrema sicurezza e prevedibilità. E tutto ciò che è incerto e avventura, è bandito, è un disvalore. Guai a parlare di progresso e progressisti. Non a caso, poi, chi esercita un’impresa viene visto con sospetto. Ed è per questo che le imprese a Lecce sono poche: mancano all’appello, rispetto alle medie nazionali, un 20% di imprenditori.

Lecce ha voluto così, nonostante il prezzo alto in termini di disoccupazione e sacrificando i giovani ad un ingresso nel mondo del lavoro, faticoso, doloroso, drammatico spesso. Peraltro, questi, educati alla fissità, si sono ridotti in uno stato in cui è assente qualsiasi slancio creativo, qualsiasi slancio avventuroso, se non in un paradigma ludico.

Scelte queste apparentemente giuste, dal momento che nel 2016 la nostra città ha registrato un dato importante: è il capoluogo e il centro abitato più ricco di Puglia, con un reddito procapite superiore a quello di Bari e che supera, appunto i 21.000 euro.

Ma ad un certo punto la ricchezza, acquisita nell’ultimo decennio, ha prodotto uno strano effetto: sempre più Lecce apprezza i sogni e i sognatori, il progresso e i progressisti. Da un momento all’altro, Lecce vuole cambiare, pur non avendo nessun esperienza in tema di cambiamento. La ricchezza le ha dato sicuramente alla testa. Da qui il disastro. Lecce si abbandona ai sognatori, che non hanno tradizione avventuriera, imprenditoriale, ma solo piccolo-amministrativa, e manageriale di cabotaggio di periferia.

Cosicché, oggi, Lecce è sporca, le sue strade sono sporche, infatti, e nella maggior parte dei casi sono dissestate, le sue tasse sono ai massimi livelli, molti dei suoi beni culturali, poi, non sono fruibili, la viabilità non è più comprensibile. Insomma, Lecce da piccolo centro di periferia, benestante, tranquillo ed ordinato, s’è trasformato in quello che non è azzardato definire un piccolo inferno.

Lecce credeva che bastasse la ricchezza per sognare, per cambiare, per ambire al progresso. Lecce non sa che il sogno è un prodotto culturale, è qualcosa che va seminato nel profondo, nei recessi più nascosti della sua popolazione. E non basta essere uomini di lettere o colti o ancora poeti, per orientarsi verso lo sviluppo, che implica crescita e cambiamento.

Verrebbe da affermare che Lecce non deve sognare, non è nelle sue corde, non ha caso i suoi antenati, i Messapi, erano un popolo, che nonostante fosse circondato dal mare non praticava la navigazione, né era un popolo di conquistatori: giocava in difesa.

Tornare sui propri passi si può? Forse! Certamente, se Lecce vuol proprio sognare, che impari a sognare. E per imparare ci vogliono decenni e grandi sacrifici…ci vuole un’azione che si sviluppi alle fondamenta, nei giovani dunque, da educare, non al posto fisso, ma a guardare all’orizzonte, in un atteggiamento di sfida.

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